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sabato, 3 Giugno, 2023

L’Avana, Itinerario 2

Da Miramar riprendo il tema degli itinerari cittadini per arrivare fino a Santa Fe. Si tratta di percorsi che i più conoscono poco. Sono traiettorie personali, l’ho già detto, che non hanno pretese di essere belle senza discussione. Anzi, la discussione la provocano. Quando, la volta scorsa, ho parlato del cimitero di Colon, c’è chi mi ha affrontato col crocifisso lanciandomi spruzzi di acqua santa ed anatemi. In ogni modo, stavolta mi piacerebbe parlare della costa della città. E soprattutto del versante occidentale, quello che va da Miramar fino a Santa Fe. Faccio una premessa: per me L’Avana, quella bella, va da calle h del Vedado fino a Santa Fe. Accetta due o tre quartieri esterni (Lawton, Santo Suarez, il Barrio Obrero e soprattutto la meravigliosa zona di Santa Catalina) e là muore. A parte sporadiche eccezioni il resto non mi piace. Ora insultatemi. Centro Habana lo trasformerei in un enorme parcheggio o in un centro commerciale, e l’Avana vecchia la evacuerei e poi la transennerei per farne un museo in mlc. Se non ci fosse il quartiere di Playa, io non vivrei all’Avana. Andrei a vivere in campagna, in mezzo al nulla. Insultatemi ancora un po’. A me piace questa Avana prossima al mare, quella che vive del mare. Jaimanitas, Santa Fe, i villaggi di pescatori martoriati dalle mareggiate, dai cicloni, che sono paesi intimi, minuscoli, ma nello stesso tempo città, a un passo dallo strapiombo. E poi mi piace l’architettura sfavillante di Siboney, le sue ville incredibili, il suo silenzio. Siboney è una delle zone più esclusive del mondo, altro che Beverly Hills o gli Hamptoms, altro che Chelsea o i Parioli. Eleganza pura e buon gusto. Ma parlavo della costa. Dunque, si deve partire da calle Primera di Miramar. Bisogna percorrerla almeno una volta al giorno. È un antidepressivo. Ti fa sentire in vacanza, sempre. Parti proprio dalla Puntilla, da quella specie di lingua di pietra che guarda al mare. Ti fermi lì e pensi che se un giorno costruiranno degli appartamenti in quel posto, venderai un rene per compratene uno, e un rene purtroppo non basterà. Guardi lontano e guardi la baia, guardi l’ignoto e il noto insieme, quel Malecon zozzo di tutto, di umanità e di fatti sovrapposti come pelli di serpente, e insieme l’orizzonte buio che si affaccia a nord dove tutto è una minaccia o la speranza degli idioti. Poi cammini verso ovest, il Sierra Maestra, la discoteca Don Cangrejo ora malinconicamente chiusa e, prima, malinconicamente aperta nella stagione di caccia al troione dove i ruoli di preda e predatore sono relativi come nella catena alimentare della giungla; poi, poco più avanti, il teatro Karl Marx. Ci pensi sempre un attimo: sei nel paese in cui un teatro può chiamarsi Karl Marx. Non è strano in questo secolo? È come girare a Roma con una bandiera della Lazio. Tra una casa e l’altra noti brevi interruzioni. Rovine. Non spiagge, non nulla. Ma crepe sul mare. La più decente è la playita di 16 che adoro: vorrei spegnermi su di una sedia di metallo del bar 7 dias guardando il mare, ma dio è permaloso e so già che mi farà tirare le cuoia in un ambulatorio di Vetralla.  Di spiaggette ce ne sono delle altre, almeno una mezza dozzina. Crolli, scogli impossibili, dientes de perro, esseri umani che prendono il sole come fachiri, guardoni, molestatori, segaioli, coppie che si fanno guardare, cani morti spolpati dalle tiñosas, santeri a leccare il culo a questo o a quel dio, giovani negri scesi da Marianao con stereo in spalla a tutto volume, galline che perdono la vita per togliere, col loro sacrificio, il malocchio a qualcuno, o per propiziargli un visto per il Gabon, qualcun altro che fotografa, sempre, quell’incantesimo con la serietà degli artisti che non caga nessuno. Vai avanti, passi il Copacabana con i turisti sventrati dagli illusionismi del troione di turno che gli ha organizzato una domenica “tutta la famiglia in piscina!”: io, tu, mamma e l’immancabile “cugino”. Convitati di pietra in ogni angolo. Densità di cugini come quella di cinesi a Pechino. Occhiali da sole volgari come bestemmie, tatuaggi tribali di tribù mai esistite. Tutti con un significato profondo. Poi glielo domandi per curiosità questo significato profondo e ti dicono: “questo totem per una che mi sono scopato tre anni fa a Salerno. Si chiamava Giusi”. Non bastava un’agendina? Passi la gelateria italiana del tipo che si vanta di essere amico di Vasco Rossi, al secondo bicchiere cugino, al terzo fratello, al quarto ti canta Albachiara. Poi i locali della notte meno indecenti, il Melen e quell’altro di cui non ricordo il nome. Passi il ponte sull’acquario nazionale e fai in tempo a vedere le facce sugli spalti del delfinario, facce scorticate dal sole e dalla paresi di un sorriso ittico. Poi passi davanti all’hotel Chateau e ti sorprendi a ricordare tuo padre che lo adorava quel posto, millenni fa, chissà perché. E poi adesso più avanti, tutta quell’area fino ad arrivare a calle 70 che ha pretese di spiaggia attrezzata ma non é una spiaggia. Paseo Maritimo. Vorresti fartela piacere ma non ci riesci. C’è qualcosa che te la mantiene distante. D’inverno i ragazzini ci fanno surf, laddove la risacca forma onde alte e lente come pachidermi preistorici. D’inverno ci vengo con Flabia. L’idea è quella di fare le foto ai surfisti ma finisco sempre per fotografare lei, che me ne frega dei surfisti alla fine. Più avanti, dietro l’hotel Panorama, la costa diventa, ancora una volta, terreno di sacrifici. Mi cambia l’umore e l’amore per questo paese. Girano ceffi vestiti come Moira Orfei, si protendono verso il mare e ammazzano animali a ripetizione per soffocare le malinconie e le preoccupazioni del codazzo di disperati che li segue. Puzzo di morte dovunque. Monnezza. Auspico sempre che si applichi una repressione durissima contro questa gente, pene severe contro i sacrifici animali, galera, legge del taglione, lapidazione, quello che sia. Poi devi prendere Tercera. Superi il Trade Center intorno al quale bazzicano i grandi affaristi d’oltreoceano, i nostri Totò che vendono la fontana di Trevi. Cialtroni squattrinati incartati in giaccacce metallizzate che diventano ben presto sudari, capelli violentati da raffiche d’aerografo color mogano scuro, ventiquattrore con dentro due fette di prosciutto crudo ed un’agendina della Banca Commerciale Italiana del 1982. Trasudano un business disperato, lottizzazioni della loro ultima spiaggia, profumo leggero di una miscela di caciocavallo e Rexona, in fondo in fondo soltanto un bisogno mostruoso d’attenzione e di “coraggio, la vita è dura per tutti”. Più avanti superi il Comodoro, la sua zona dei negozi. Il baretto all’aperto ormai dominato da mute di mignottoni di terza fascia e lenoni. Tiri dritto fino alla spiaggetta della coda di balena. È lì, una coda di balena d’acciaio piantata nella sabbia a fare l’effetto di un cetaceo che si immerge da sempre. Una volta una mareggiata l’aveva divelta. Mia figlia l’aveva notato passandoci in moto. Niente, qualche giorno e stava di nuovo in piedi. Quella coda: l’equilibrio invisibile di questa città. Più avanti il circo, poi la Isla de los cocos, le giostre. Ci sono andato una volta soltanto con Nina nel periodo più difficile di sempre. Ricordo la tristezza di quei giochi. Il tempo che non passava. Il sole furioso. La paura del presente. Il mio amore per lei che non trovava parole per spiegarle le cose dei grandi. I grandi. Più avanti si passa su Quinta. La zona del Nautico. Il campo da Baseball dove la domenica le famiglie si ammassano a guardare i figli giocare. Ogni volta mi ricorda i campetti di Roma, la pozzolana, le magliette slabbrate, l’olio canforato, le pantofole d’oro, i gol, i gol, l’istante assoluto del gol, la giovinezza, ma chiudo gli occhi e scompare. Sono all’Avana e lentamente, lungo Quinta che diventa un viale pieno di chiaroscuri, superi Flores, intravedi altra costa sul fondo, palazzine crollate. Arrivi alla Estrella, a sinistra si va verso Siboney, pensi a casa di Fabio, alle domeniche del Roma Club. Hai nostalgia di quei momenti. Quando ricomincia? Quando potremo ricominciare a stare insieme? A destra c’è il Club Havana. Ci sei stato una volta e hai deciso che non ti piace. Ti ricordi di essere passato lì anche il giorno dopo il ciclone Irma. Era tutto per terra come in una casa dopo il passaggio dei ladri. Ancora un rettilineo. Sulla sinistra il Punto zero. Davanti a te Jaimanitas. La fermata dell’autobus costruita da Fuster, poi la scritta a mosaico di benvenuto. Entri dentro. Strade asimmetriche. Odore di pesce. In un vicolo cieco Santy, uno dei migliori ristoranti dell’Avana. Ti piace Jaimanitas. Nello spazio di un paio di chilometri hai aperto, rotto, ucciso, ripreso, pianto una decina di amori. Vorresti riparare l’irreparabile. Mettere cerotti e fabbricare passato. Sei lì. Ti fermi. Nel mare di questa città che sempre meno è presente, architetture, reti stradali, ma sempre più una trama inestricabile di labirinti intimi. Quelli che partono da calle Primera a Miramar e finiscono a farti battere il cuore. 

Foto in esclusiva by Flabia Cuevas Photographer 2020 – 2021 ©

Alessandro Zarlatti
Alessandro Zarlatti
Scrittore italiano, insegnante di lingua italiana e certificatore ufficiale per l'Università per stranieri di Perugia.

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2 Commenti

  1. Articolo come sempre stupendo .. abbiamo gli stessi gusti in quanto a zone dell’Avana .. io ho vissuto a santafè per me il paradiso anche se paradiso non é

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